Jansen era un ragazzo pieno di talenti.
Tutti si aspettavano molto. Lui per primo.
Invece quando aveva poco più di vent’anni, un incidente modificò ogni cosa.
Un impatto frontale, distruttivo e invalidante.
Jansen si scontrò con la realtà.
La guardò negli occhi e lei lo ferì in modo irreparabile.
Il suo cuore smise di battere per un istante.
Fu tutto talmente rapido che i dottori non ebbero nemmeno il tempo di arrivare, tanto meno di far qualcosa.
Per questo non capirono mai bene cosa fosse successo.
Quando il cuore di Jansen ripartì, era passata solo una frazione di minuto.
Ma era cambiato tutto, dentro e fuori di lui.
Il suo battito era diventato imperfetto, a volte addirittura inadatto, come si era abituato a dire.
Aveva iniziato a soffrire di una particolarissima forma di alloritmia: un disturbo del ritmo cardiaco caratterizzato dalla presenza di battiti fuori tempo, un’irregolarità uniforme e costante.
Come spesso accade, problema porta problema.
Così nel giro di poco si era manifestata la prima gastrite nervosa, che l’aveva portato a dormire sempre meno e sempre peggio. Questo gli aveva causato una serie di contratture muscolari, che l’avevano indotto a camminare male e nel giro di poco si era trasformato in un relitto ambulante.
Un circolo da cui non era, di fatto, mai più riuscito a uscire.
Ne aveva risentito fortemente il suo stare al mondo.
La sua vita sociale prima e quella relazionale poi.
Medici di ogni tipo avevano provato a risolvere il rompicapo. Secondo modi e tempi diversi, tutti, alla fine, si erano arresi. Eppure il suo cuore era sempre stato sano, almeno in apparenza.
A ogni modo aveva dovuto provare a stare al passo con il ritmo giusto, quello degli altri.
Un’eterna rincorsa alla normalità. Un dispendio di energie fisiche e mentali notevoli, che di tanto in tanto lo portava a crollare ed esplodere.
Come accadde quel giorno, quando scoppiò a piangere nella solitudine di casa sua.
Elizabeth viveva giusto dall’altra parte della strada, in un’altra parte di mondo.
Era una bimba con le labbra rosse accese.
Un giorno si era accorta di Jansen e della sua vita e, da lontano, aveva iniziato a prenderne parte, a sua insaputa.
Quando quel giorno Elizabeth sentì il pianto profondo e rabbioso di Jansen decise di irrompere nella sua vita, dalla porta principale. Così andò a bussargli.
Jansen sentì dei colpi leggeri e fece finta di nulla. Ma Elizabeth insistette.
Così fu costretto a considerare l’ipotesi di andare a vedere chi fosse.
Si asciugò le guance e, infastidito, pronunciò un sommesso: “Arrivo. Si può sapere chi è?”
Jansen non riceveva mai visite e non capiva perché dovessero disturbarlo proprio in quel momento.
“Ciao, sono Elizabeth”.
Sentendo di non correre rischi, Jansen aprì la sua porta bianca e si trovò davanti la bocca carnosa di una bimba.
“Ciao, cosa c’è? Come po-posso aiutarti?” – balbettò sorpreso Jansen.
“In realtà sono io che posso aiutare te” – rispose risoluta Elizabeth – “Mi porti in un bar e parliamo un po?”
Jansen non aveva nessuna voglia di andare fuori e stare in mezzo alla gente.
Però, per un istante, pensò che forse quella era un’occasione unica. Non era tanto facile che qualcuno si accorgesse del suo dolore e tanto meno che poi lo invitasse a uscire. Forse sfogarsi, parlando con qualcuno, gli avrebbe potuto fare bene. Così accettò.
La bimba sembrò contenta. Questo mise Jansen di buon umore.
Insieme entrarono nel Bar Magia.
Jansen e la sua alloritmia si sedettero a un tavolino nell’angolo. Elizabeth e le sue labbra rosse si accomodarono di fronte.
Lei gli disse che sapeva della sua esistenza da tempo. Ma conosceva poco della sua storia. Così gli chiese di raccontargli tutto. Lo avrebbe ascoltato.
Jansen, davanti a questa sconosciuta, questa donna dalla bocca pronunciata e dai lineamenti dolci di una bimba, si sentì per la prima volta dopo tantissimo tempo a suo agio e non si vergognò di rivelarle ogni particolare, anche le parti più dolorose.
Quando arrivò il cameriere a prendere le ordinazioni, Elizabeth era già venuta a conoscenza di molte cose della vita di Jansen: del suo incidente, del suo battito imperfetto, della sua rabbia, della sua solitudine, del suo bisogno d’affetto.
“Cosa vuole, signore?”- interruppe il cameriere.
“Cosa vuoi?” – le fece eco Elizabeth, guardandolo negli occhi.
Jansen rimase in silenzio un istante. Sentì un tuffo al cuore.
Fronteggiò uno di quegli attimi, impercettibili dal di fuori, con cui spesso si trovava a fare i conti.
Fu l’ultimo impulso inesatto che partì dentro di lui.
Quando riemerse dall’apnea, guardò prima Elizabeth e poi il cameriere. E così di nuovo un’altra volta.
Poi rispose come avrebbe fatto solo una persona piena di talenti.
A entrambi, con un’unica frase.
“Cosa vuoi?”
“TE. UN AMORE IN TAZZA GRANDE“.
Tutti e tre sorrisero e annuirono.
Andrea
Nome: Tazza rossa
Età: 3 anni
Taglia: M
Residenza: credenza
Segni particolari: non tazza alcolici!